Etnia

Etn-ia
Gradino verso il cielo, bocca verso il cuore della terra. Un vulcano non è una semplice montagna. Non a caso a Catania lo chiamano “la Montagna”. Quel concedere la maiuscola non è un caso: è un preciso modo di riconoscere all’Etna una maestosità che altre montagne non hanno. È il vulcano, un qualcosa oltre un semplice monte.
È paura, mistero, riverenza. Sì, riverenza davanti a quella Natura che è Madre ed è Matrigna e dinanzi a cui l’uomo si rivela piccolo.
È color nero, aridità, disidratatezza. Quando il vulcano tace le sue fiammanti scenografie, tutto tace, tutto è silenzio.
È fatica. Sì, fatica. Chi intraprende quel viaggio fino a toccare il cielo attraverso l’Etna deve essere consapevole di una parola: fatica.
Fatica nel salire, fatica nel vedere oltre l’aridità, fatica nel distaccarsi dall’umano ed entrare in qualcosa ben più oltre lo stesso umano.
Andare a constatare che la Natura è rimasta la stessa: grande, imperiosa, signora, padrona. E l’uomo, che pur avrebbe voluto essere a sua immagine e somiglianza, non è rimasto che è lo stesso: piccolo, indifeso, fragile.
Nell’aria rarefatta e nelle mani di chi si è fatto delle stesse rughe della pietra lavica, due spettacoli: quello che è la Natura stessa e quello che è la grande fragilità dell’uomo.
Leopardi ne “La ginestra”, riferendosi al Vesuvio, scriveva “Qui sull’arida schiena […]”.
In questo connubio fotografico di schiena di vulcano e gambe di erranti allo scoperta della Natura, c’è una parola che, scomponendosi, richiama entrambi questi elementi.
Etn-ia. Di ritorno dall’Etna, gli erranti sono diventati tutti di un’unica etnia: quelli che hanno visto quant’è bello essere umani.
Ovvero fragili, uguali, uniti.
Un’unica grande Etn-ia.